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I contratti della crisi coniugale
al vaglio delle Sezioni Unite
della Corte di Cassazione

1.

Premessa

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono state infine chiamate a comporre la ormai antica diatriba concernente la validità dei cosiddetti contratti della crisi coniugale (o contratti post-matrimoniali), cioè di quei contratti che, in quanto ancorati alle previsioni di cui all’art. 711 c.p.c. o all’art. 4, comma 16, della legge 1° dicembre 1970, n. 898 («l. div.»), contengano disposizioni riguardanti rispettivamente «le condizioni della separazione consensuale» (così l’art. 711 c.p.c.) o «le condizioni inerenti la prole e ai rapporti economici» (così l’art. 4, comma 16, l. div.).

Anticipiamo che le Sezioni Unite, con la sentenza 29 luglio 2021, n. 21761, hanno sistemato il contrasto, riconoscendo, sulla scorta dell’art. 1322, comma 2, c.c., la legittimità di tali contratti, quando conclusi dalle parti in ottica solutoria-compensativa, ovverosia allo scopo di garantire, in tempi ragionevoli, un soddisfacente assetto dei reciproci rapporti (anche) patrimoniali in vista della celere chiusura della crisi coniugale.

2.

Il caso

La fattispecie concreta, da cui è scaturita la vicenda processuale che ha portato, prima, all’ordinanza di rimessione del ricorso alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione e, quindi, alla statuizione oggetto di questa breve analisi, è riassumibile nei termini che seguono.

Le parti, nell’ambito di un procedimento volto ad ottenere la declaratoria di cessazione degli effetti civili di un matrimonio concordatario, introdotto con ricorso congiunto ex art. 4, comma 16, l. div., pattuivano pure il trasferimento da parte del padre in favore dei due figli maggiorenni non autosufficienti economicamente della sua quota indivisa, corrispondente al 50%, del diritto di nuda proprietà sull’immobile adibito a casa coniugale nonché della corrispondente quota del diritto di usufrutto in favore della ex moglie. Il Tribunale di Pesaro, con sentenza 13 dicembre 2016, n. 933, accertatane la ricorrenza dei presupposti ex art. 3 l. div., pronunciava la cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario, ma al contempo, ritenuta la sentenza di divorzio inidonea ad attuare un trasferimento immobiliare diretto, qualificava gli accordi inter partes come costitutivi di un mero obbligo ad contrahendum ex art. 1351 c.c. in capo agli ex coniugi.

La Corte d’Appello di Ancona, con sentenza 18 aprile 2017, n. 583, adita su gravame congiunto dei ricorrenti, confermava integralmente la sentenza di primo grado.

Gli ex coniugi proponevano, dunque, ricorso per cassazione contro la sentenza della Corte distrettuale anconetana, deducendo, a fondamento, la violazione e falsa applicazione degli artt. 1322, 1362 e 1376 c.c. nonché dell’art. 19 del D.L. 31 maggio 2010, n. 78, convertito con 30 luglio 2010, n. 1 in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.

La Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione pronunciava l’ordinanza interlocutoria 10 febbraio 2020, n. 3089, a mezzo della quale rimetteva gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, poi in effetti avvenuta.

3.

La questione

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, precedute in quest’opera ricognitiva dall’ordinanza di rimessione al Primo Presidente, hanno innanzitutto passato in rassegna il quadro dottrinale e giurisprudenziale di riferimento.

Quanto alla dottrina, viene dato atto di tre distinti orientamenti, espressioni di un diverso grado di apertura verso l’ammissibilità dei contratti post-matrimoniali.

Un primo indirizzo manifesta una chiusura pressoché totale verso simili soluzioni, per cui le intese raggiunte tra le parti nell’ambito dei procedimenti di composizione della crisi coniugale non dovrebbero eccedere il loro contenuto tipico e necessario, bensì rimanere circoscritte agli aspetti inerenti ai rapporti dei genitori con la prole (affidamento e mantenimento dei figli) nonché ai rapporti patrimoniali tra le parti (mantenimento, se ne ricorrano le condizioni). Sarebbero, dunque, del tutto estranei a tale contenuto necessario i patti volti all’immediato trasferimento di diritti reali immobiliari, mentre sarebbe il notaio l’unico soggetto abilitato dall’ordinamento giuridico a ricevere simili negozi giuridici, a nulla potendo rilevare che l’atto traslativo sia stato necessitato dalla crisi coniugale.

Un secondo orientamento, invece, sebbene affermi la teorica ammissibilità dei patti traslativi di diritti reali immobiliari attuati nell’ambito della separazione consensuale o del divorzio congiunto, predilige una struttura comunque bifasica dell’operazione in ragione dell’elevato rischio di errori invalidanti correlati agli adempimenti e alle verifiche richiesti per i trasferimenti immobiliari (indicazioni urbanistiche, attestazione di prestazione energetica e certificazione catastale). In questa prospettiva, le intese tra le parti, raggiunte nel contesto del procedimento volto alla composizione della crisi coniugale, dovrebbero essere solo costitutive di un obbligo a contrarre ex art. 1351 c.c. in vista della stipula dell’atto traslativo, quest’ultima da riservarsi all’ambito notarile in adempimento dell’obbligo in precedenza assunto.

Un terzo orientamento, infine, ammette in toto i contratti della crisi coniugale, chiaramente atipici, ma volti a perseguire uno scopo ritenuto meritevole di tutela dall’ordinamento giuridico ai sensi dell’art. 1322, comma 2, c.c. Si sostiene, in altri termini, la necessità di dare piena attuazione all’autonomia privata e, in questo ambito, alla volontà delle parti di dare una sistemazione finale e complessiva ai rapporti patrimoniali nel momento della liquidazione del rapporto coniugale, anche quando questo scopo venga attuato mediante il trasferimento di diritti, con o senza controprestazione.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, quanto alla giurisprudenza invece, danno atto della sostanziale antinomia tra le corti di merito e la quasi totalità dei precedenti di legittimità.

La giurisprudenza di legittimità, infatti, pur in relazione a fattispecie concrete assai variegate tra loro, si è largamente consolidata nel senso dell’ammissibilità dei contratti della crisi coniugale, anche quando volti a realizzare effetti immediatamente traslativi di diritti reali mobiliari o immobiliari. L’accordo di separazione consensuale è qualificato come un negozio di diritto familiare, espressamente previsto dagli artt. 150 e 158 c.c. e disciplinato, quanto agli aspetti formali, dall’art. 711 c.p.c., il quale, tra l’altro, prevede che esso sia documentato nel processo verbale sottoscritto dal cancelliere ex art. 126 c.p.c. e che acquisti l’efficacia a seguito della omologazione da parte del tribunale: ne sarebbe soddisfatta, dunque, la forma scritta e la pubblica fede ex art. 2699 c.c. (in quanto atto ricevuto dal cancelliere) ed esso diverrebbe valido titolo per la trascrizione ai sensi dell’art. 2657 c.c. una volta omologato (Cass. 15 maggio 1997, n. 4306).  Diverse successive pronunce si sono poste nel solco di quella appena citata ed hanno predicato la legittimità dei contratti della crisi coniugali, anche ove contenenti reciproche attribuzioni patrimoniali di beni mobili o immobili, perché rispondenti generalmente ad uno specifico spirito di sistemazione dei rapporti occasionata dalla vicenda della crisi matrimoniale (ex multis Cass. 25 ottobre 2019, n. 27409 e, in epoca poco anteriore, Cass. 15 aprile 2019, n. 10443 nonché, in anni più risalenti, Cass. 23 marzo 2004, n. 5741; Cass. 26 luglio 2005, n. 15603; Cass. 14 marzo 2006, n. 8516; contra solo Cass. 8 marzo 1995, n. 2700). La Corte di Cassazione, dunque, ha ripetutamente opinato che la separazione consensuale è un negozio di diritto familiare, il quale si caratterizza per un contenuto tipico e necessario (che è rappresentato dal consenso dei coniugi a vivere separati, dalle decisioni inerenti all’affidamento e al mantenimento della prole nonché, in caso, al mantenimento in favore del coniuge svantaggiato) e per un contenuto eventuale, che è un semplice incidente della separazione, poiché in essa trova occasione, e che è dato da quegli accordi del tutto autonomi che i coniugi raggiungono in vista ed in funzione della instaurazione di un regime di vita separata (Cass. 30 agosto 2019, n. 21839; Cass. 19 agosto 2015, n. 16909). Si afferma in tali arresti che l’autonomia del contenuto eventuale dell’accordo di separazione consensuale fa sì che esso neanche soggiaccia alla possibilità di modifica ex art. 710 c.p.c., istituto circoscritto al solo contenuto tipico ed essenziale. A chiusura della rassegna, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione evidenziano come «È indifferente, in definitiva, nella giurisprudenza di questa Corte, la modalità con la quale il regolamento di interessi avvenga, purché esso sia idoneo a garantire un soddisfacente assetto dei rapporti tra le parti – per un futuro nel quale la convivenza coniugale si avvia verso un esito di separazione o di scioglimento – in tempi ragionevoli che consentano di chiudere la crisi al più presto, quanto meno sul piano economico. Ed in tale prospettiva, - come in seguito si dirà – lo strumento più adeguato si palesa proprio il trasferimento immobiliare definitivo (…)».

La giurisprudenza di merito, invece, si è attestata su posizioni contrastanti con quelle costantemente predicate dalla Corte di Cassazione, mostrando una certa ostilità verso l’impostazione aperturista. I tribunali e le corti distrettuali, muovendo dalla distinzione tra contenuto necessario e contenuto eventuale degli accordi di separazione, hanno predicato, a larghissima maggioranza, che il contenuto eventuale non possa in nessun caso recare patti immediatamente traslativi di diritti reali immobiliari, rispetto ai quali l’art. 29, comma 1-bis, della legge 27 febbraio 1985, n. 52 avrebbe concentrato in capo al solo notaio, a pena di nullità dell’atto, tutte le verifiche concernenti l’identificazione catastale e la conformità dei dati catastali e delle planimetrie allo stato di fatto dell’immobile. Il verbale dell’udienza di comparizione personale dei coniugi, ancorché riproduttivo delle intese raggiunte tra le parti e anche se sottoscritto dal cancelliere ex art. 126 c.p.c., non costituirebbe né atto pubblico né scrittura privata autenticata, bensì una scrittura privata semplice, la cui efficacia nei confronti dei terzi sarebbe condizionata alla necessaria reiterazione del contratto nella forma dell’atto pubblico notarile o della scrittura privata autenticata, ai fini della trascrizione ai sensi dell’art. 2657 c.c. (Trib. Milano 21 maggio 2013, in Fam. e dir., 2014, 600 ss.; Trib. Milano 6 dicembre 2009, in Fam. e dir., 2011, 937; Trib. Napoli 16 aprile 1997, in Fam. e dir., 1997, 420; Trib. Firenze 29 settembre 1989, in Riv. not., 1992, 595). Bisogna dare atto, però, anche di un indirizzo di merito che si è mosso nel solco tracciato dai precedenti di legittimità, secondo cui il trasferimento immobiliare, contenuto nel verbale di comparizione dei coniugi, in quanto sottoscritto dal cancelliere ai sensi dell’art. 126 c.p.c., riveste la forma di un atto pubblico, dotato di fede privilegiata ex art. 2699 c.c., ed acquista, dopo l’omologazione di cui all’art. 711 c.p.c., la sua efficacia e diviene titolo per la trascrizione a norma dell’art. 2657 c.c. (App. Milano 12 gennaio 2010, in Fam. e dir., 2011, 589; Trib. Salerno 4 luglio 2006, in Fam. e dir., 2007, 63; App. Genova 27 maggio 1997, in Dir. fam. e pers., 1998, 572; Trib. Pistoia 1° febbraio 1996, in Riv. not., 1997, 1421).

4.

La soluzione

Ricostruiti gli orientamenti di dottrina e giurisprudenza, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione passano a dirimere il contrasto che ne ha determinato l’intervento.

Le Sezioni Unite rilevano, in prima battuta, che la gran parte dei precedenti di legittimità che hanno ammesso il trasferimento immediato e diretto di diritti reali per mezzo dei contratti della crisi coniugale si è formata con riferimento alla separazione consensuale. Questo rilievo, nell’impostazione seguita dalla sentenza in analisi, non giustifica comunque conclusioni difformi a proposito dell’ammissibilità di simile intese nelle due differenti sedi, essendo connotati l’accordo di separazione personale e il divorzio congiunto da identità di causa.

Le Sezioni Unite osservano che il più evidente elemento distintivo tra separazione consensuale e divorzio congiunto è la diversa disciplina della fase conclusiva dei due procedimenti. La separazione consensuale sfocia nell’omologazione da parte del tribunale ex art. 711 c.p.c.; il divorzio congiunto, invece, finisce con la sentenza emessa dopo l’audizione dei coniugi ex art. 5 l. div. Le Sezioni Unite precisano che la sentenza di divorzio incide sul vincolo matrimoniale, ma non sull’accordo tra i coniugi. Quanto al vincolo matrimoniale, il tribunale è chiamato ad accertare la sussistenza di uno dei motivi di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio di cui all’art. 3 l. div., rispetto a cui la pattuizione privata può avere valore soltanto ricognitivo. L’accordo tra i coniugi relativo agli aspetti personali e patrimoniali derivanti dalla cessazione del vincolo coniugale ha, invece, natura effettivamente negoziale: rispetto ad esso la sentenza di divorzio non può eccedere il limite di un controllo esterno di tipo omologatorio, diretto a verificarne la rispondenza alle norme inderogabili e all’interesse dei figli. La sentenza di divorzio, in altri termini, ha natura costitutiva quanto alla risoluzione del legame matrimoniale e di mero accertamento quanto al versante negoziale dell’accordo, cioè relativamente alle condizioni inerenti alla prole ed ai rapporti economici. Le Sezioni Unite, quindi, affermano, al § 3.4.5. della sentenza in esame, che «La pacifica – secondo tutta la giurisprudenza di legittimità succitata – natura negoziale degli accordi dei coniugi, equiparabili a pattuizioni atipiche ex art. 1322 c.c., comma 2, comporta pertanto che – al di fuori delle specifiche ipotesi succitate – nessun sindacato può esercitare il giudice del divorzio sulle pattuizioni stipulate dalle parti, e riprodotte nel verbale di separazione (…)». Nella prospettiva delineata, qualunque intervento giudiziale, volto alla conversione di negozi giuridici immediatamente traslativi di diritti reali in atti a contenuto obbligatorio, sarebbe illegittimo perché provocherebbe una indebita ingerenza nell’autonomia privata di cui all’art. 1322, comma 2, c.c.

La Corte di Cassazione aggiunge che neppure l’art. 29, comma 1-bis, della legge 27 febbraio 1985, n. 52 autorizza conclusioni difformi: infatti, esso non permette di relegare al solo ambito notarile gli atti di alienazione di diritti reali immobiliari. La norma de qua, infatti, sanziona, a pena di nullità dell’atto, l’omissione in esso della identificazione catastale, del riferimento alle planimetrie depositate in catasto e della dichiarazione delle parti della conformità allo stato di fatto dei dati catastali e delle planimetrie (la quale dichiarazione, per inciso, può anche essere sostituita da un’attestazione di conformità rilasciata da un tecnico abilitato). L’intervento del notaio è circoscritto, e non a pena di nullità, alla individuazione degli intestatari catastali e alla verifica della loro conformità con le risultanze dei registri immobiliari. Se ne ricava che la nullità di cui alla prima parte dell’art. 29, comma 1-bis, della legge 27 febbraio 1985, n. 52, è testuale ex art. 1418 c.c., ha carattere oggettivo (perché deriva dalla mancanza pura e semplice delle informazioni ivi descritte, indipendentemente dalla loro correttezza e veridicità, ove rilasciate) e non ha nulla a che vedere con il soggetto che svolge tale accertamento, il quale non deve essere necessariamente il notaio (come emerge dalla seconda parte dell’art. 29, comma 1-bis, della legge 27 febbraio 1985, n. 52, ove è contenuta la sola previsione davvero relativa al notaio, la cui inosservanza, però, non è punita con la nullità dell’atto posto in essere).  Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, dunque, riconoscono la legittimità dei trasferimenti immobiliari realizzati nell’ambito dei contratti della crisi coniugale non solo ai sensi dell’art. 1322, comma 2, c.c., ma anche alla luce dell’art. 29, comma 1-bis, della legge 27 febbraio 1985, n. 52, purché tutte le informazioni richiamate, a pena di nullità, nella prima parte della disposizione in questione (i.e. identificazione catastale, riferimento alle planimetrie depositate in catasto, dichiarazione della conformità allo stato di fatto dei dati catastali e delle planimetrie, eventualmente sostituita quest’ultima dalla attestazione di un tecnico abilitato) siano pedissequamente trasfuse nell’accordo raggiunto tra i coniugi. Invece, gli incombenti di cui alla seconda parte del precitato art. 29, comma 1-bis, della legge 27 febbraio 1985, n. 52, ovverosia l’individuazione degli intestatari catastali e la loro rispondenza con le risultanze dei registri immobiliari, potrebbero ben essere svolti dal cancelliere, sulla base della documentazione che le parti avranno prodotta, senza che l’omissione di tali attività possa ripercuotersi in alcuna misura sulla validità dell’atto (le Sezioni Unite, a tal riguardo, invitano gli uffici giudiziari a dotarsi di un protocollo da predisporre d’intesa con il locale ordine degli avvocati, n.d.r.). Il riferimento al notaio, contenuto nella norma de qua, andrebbe letto quindi estensivamente come relativo a qualsiasi pubblico ufficiale, mentre, se il legislatore avesse inteso riservare l’intervento al solo notaio, avrebbe dovuto chiarire espressamente l’introduzione di una norma in deroga all’art. 1350 c.c., che, nello stabilire la forma degli atti traslativi di diritti reali immobiliari, sancisce che essi «Devono farsi per atto pubblico o per scrittura privata (…)». Siffatta interpretazione, secondo le Sezioni Unite, rende l’art. 29, comma 1-bis, della legge 27 febbraio 1985, n. 52 compatibile con ogni trasferimento immobiliare, anche se realizzato senza l’intervento di un notaio, e cioè, oltre che in forza di una sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c., anche giusto un verbale di conciliazione giudiziale o un verbale di separazione consensuale o di divorzio congiunto. 

5.

Conclusioni

L’ammissibilità dei contratti della crisi coniugale a contenuto misto (tipico-necessario ed eventuale), anche attuativi di trasferimenti diretti ed immediati di diritti reali immobiliari in funzione solutoria-compensativa dei rapporti tra i coniugi (o ex coniugi) o quale modalità di adempimento in concreto dell’obbligo di mantenimento della prole, pare ormai sdoganata alla luce dell’intervento delle Sezioni Unite, sempre salvo possibili (ma non auspicabili) revirement. Il requisito della forma scritta dell’atto e della sua fede privilegiata ex 1350 e 2699 c.c. è compiutamente assicurato dalla accurata trasposizione delle intese nel processo verbale di comparizione personale delle parti, che è sottoscritto dal cancelliere ex art. 126 c.p.c., al quale, a propria volta, compete la qualifica di pubblico ufficiale e che, nell’assolvimento dei compiti relativi all’udienza, esercita una pubblica funzione ai sensi dell’art. 357 c.p. La sentenza di divorzio – la cui efficacia costitutiva è riservata alla verifica della sussistenza di uno dei motivi ex art. 3 l. div. e alla correlata statuizione di cessazione del vincolo matrimoniale – ha natura dichiarativa di tali intese, ne “omologa” la rispondenza alle norme inderogabili e all’interesse della prole e conferisce efficacia all’atto pubblico così formato, rendendolo valido titolo per la trascrizione ai sensi dell’art. 2657 c.c. L’accordo e il verbale in cui esso è trasferito devono contenere, a pena di nullità, tutte le informazioni di cui all’art. 29, comma 1-bis, della legge 27 febbraio 1985, n. 52, e quindi:
  • l’identificazione catastale;
  • il riferimento alle planimetrie depositate in catasto;
  • la dichiarazione, da parte degli intestatari, della conformità allo stato di fatto dei dati catastali e delle planimetrie; o in alternativa
  • l’attestazione di conformità rilasciata da un tecnico abilitato alla presentazione degli atti di aggiornamento catastale.

Per quanto concerne, invece, le verifiche di cui alla seconda parte della norma de qua (i.e. individuazione degli intestatari catastali e verifica della loro conformità con le risultanze dei registri immobiliari), esse non appaiono riservate al notaio, ma possono essere compiute da qualunque pubblico ufficiale (incluso il cancelliere che operi nelle funzioni di cui all’art. 126 c.p.c.) e, in ogni caso, la loro mancanza non sembra rilevare ai fini della validità dell’atto (è lo stesso art. 29, comma 1-bis, seconda parte, della legge 27 febbraio 1985, n. 52, che non assoggetta a nullità l’atto che ne difetti).

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