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Scioglimento della società per riduzione del capitale sociale al di sotto del minimo legale e obblighi degli amministratori.

1.

Premessa

Una recente sentenza della Prima Sez. Civile della Corte di Cassazione (n.198/2022, pubblicata il 5 gennaio 2022) offre lo spunto per affrontare il tema della condotta richiesta agli amministratori di società di capitali nel caso in cui si verifichi la riduzione del capitale sociale al disotto del minimo legale. Orbene nel caso in cui l’organo gestorio della società non si adoperi per convocare l’assemblea dei soci affinché questa deliberi la riduzione del capitale ed il contemporaneo aumento del medesimo ad una cifra non inferiore al minimo legale, opererà automaticamente la causa di scioglimento di cui all’art. 2484, comma 1, n. 4), la quale impone agli amministratori di accertare “senza indugio” il verificarsi della causa di scioglimento e di procedere all’iscrizione della dichiarazione con cui tale accertamento viene effettuato.
Gli amministratori potranno rendersi conto dell’avvenuta perdita del capitale sociale non solo in occasione dell’approvazione della bozza di bilancio di esercizio, ma anche quando sia redatto un bilancio infra-annuale destinato ad informativa interna. Peraltro, le società di capitali sono oggi obbligate a redigere un c.d. bilancino dall’art. 2381 (applicabile anche alle s.r.l. in virtù del richiamo effettuato dall’art. 2475, comma 6, c.p.c. così come modificato dall’art. 377, comma 5, D. Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza).

2.

Obbligo di gestione conservativa dell’ente

Ora, vi è da chiedersi quale sia per l’organo gestorio la condotta da tenersi a seguito dell’avvenuta conoscenza della insorgenza della causa di scioglimento di cui alla fattispecie in commento, al di là dell’obbligo di porre in essere le formalità di cui all’art. 2484, comma 3, c.p.c.
A tal proposito si è soliti dire che, in ossequio a quanto previsto dall’art. 2486 c.c., fino al momento del passaggio di consegne fra amministratori e liquidatori i primi sono tenuti ad una gestione dell’ente che si limiti alla conservazione ed alla integrità del valore del patrimonio sociale. Nulla è detto, però, circa cosa si intenda per gestione conservativa della società, dato che tale espressione – fatta salva la chiara esclusione della possibilità di porre in essere operazioni di gestione straordinaria qualora tale potere sia stato precedentemente delegato dall’assemblea dei soci all’organo gestorio – si presta ad una molteplicità di letture. Si tratta di un tema di estrema importanza, anche per le ricadute che esso è suscettibile di generare, atteso che, a norma dell’art. 2486, comma 1, c.p.c., gli amministratori che dovessero contravvenire a tale dettato legislativo sono personalmente e solidalmente responsabili dei danni arrecati alla società, ai soci, ai creditori sociali ed ai terzi. Tuttavia, lo stesso art. 2486 pur potendo apparentemente essere utile a chiarire meglio la condotta attesa dall’organo gestorio, contribuisce, in realtà, a rendere più ostica una sua chiara individuazione. Il nuovo terzo comma di tale norma, anch’esso introdotto con l’approvazione del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, dispone che dall’importo del danno calcolato in ossequio all’applicazione dei criteri previsti nel medesimo articolo (e su cui infra al par. 3), vadano «detratti i costi sostenuti e da sostenere, secondo un criterio di normalità, dopo il verificarsi della causa di scioglimento».
Nella fattispecie posta all’attenzione del supremo collegio, la sentenza della Corte d’Appello di Roma impugnata aveva ritenuto che le operazioni contestate all’amministratore successivamente alla perdita del capitale sociale, non contrastassero con il divieto di “intraprendere nuove operazioni” (espressione che richiama la formulazione dell’art. 2447 ante-riforma disciplinante la medesima fattispecie) in quanto si trattava di commesse ed acquisti che la società effettuava sistematicamente ogni anno. La Suprema Corte con l’ordinanza in commento ritiene, al contrario, che la abitualità di tali operazioni «sia assolutamente inidonea ad evidenziare la natura conservativa delle stesse, apparendo piuttosto idonea a suffragare la tesi della curatela secondo cui, nonostante si fosse verificata una causa di scioglimento della società, quest’ultima, noncurante, aveva continuato ad operare con le stesse modalità operative del passato». 
Dunque, sebbene il ricorso per cassazione fosse stato incardinato già in data antecedente alla introduzione del terzo comma dell’art. 2486, possiamo ragionevolmente affermare che il “criterio di normalità” individuato dal legislatore non potrà essere interpretato nel senso che la società per la quale si sia verificata una causa di scioglimento possa esser condotta secondo logiche di continuità aziendale. Ciò in quanto, a modo di vedere di chi scrive, verificatasi la causa di scioglimento il patrimonio sociale non può più considerarsi destinato alla realizzazione dello scopo sociale, ma passa dall’essere promessa di garanzia dei creditori sociali ad oggetto di liquidazione per la concreta soddisfazione di questi. 
Neppure però sembra corretto pretendere che con il verificarsi di una causa di scioglimento tutta l’attività sociale cessi di colpo, pena l’imposizione di ulteriori perdite del valore aziendale dovute alla cessazione dell’attività d’impresa nonché l’esposizione della società stessa ad azioni risarcitorie promosse da controparti contrattuali dei rapporti in essere in tale momento. 
Muovendo da tali considerazioni, il riferimento all’“operatività normale” e alla “gestione conservativa della società” staranno ad indicare che mentre l’adempimento di obblighi assunti in un momento antecedente al verificarsi della causa di scioglimento rappresenterà una condotta degli amministratori non suscettibile di provocare danno all’ente, al contrario tutte quelle nuove iniziative caratterizzate dall’assunzione di nuovo rischio d’impresa dovranno ritenersi contrarie al disposto normativo.

3.

Onere della prova nel contesto dell’azione promossa contro gli amministratori

Come si atteggia l’onere della prova nel caso in cui, per effetto della prosecuzione dell’attività caratteristica dell’ente successivamente al verificarsi della causa di scioglimento di cui all’art. 2484, comma 1, n. 4), siano arrecati danni «alla società, ai soci, ai creditori sociali ed ai terzi»? 
Il provvedimento in esame per giungere a rispondere a tale quesito muove dal prendere in considerazione quelle che sono le condizioni di una eventuale azione di responsabilità promossa nei confronti degli amministratori nel contesto che ci occupa. Esse sono (i) il compimento dopo il verificarsi di una causa di scioglimento di atti di gestione non aventi finalità conservativa; (ii) il danno; (iii) il nesso causale tra condotta e danno. 
L’ordinanza richiama innanzitutto la propria giurisprudenza (Cass. 2156/2015 e Cass. S.U. 9100/2015), affermando che rappresenterebbe una violazione della ripartizione dell’onere della prova ex art. 2697 c.c. porre in capo all’attore/ricorrente l’onere di dimostrare l’assenza della finalità liquidatoria degli atti posti in essere dagli amministratori. Sul punto la Corte ribadisce che «Spetta, infatti, agli amministratori convenuti di dimostrare che tali atti, benché effettuati in epoca successiva allo scioglimento, non comportino un nuovo rischio d’impresa (come tale idoneo a pregiudicare il diritto dei creditori e dei soci) e siano giustificati dalla finalità liquidatoria o necessari». Pertanto, all’attore sarà richiesto di allegare e provare la ricorrenza delle condizioni per lo scioglimento della società e il successivo compimento di atti gestori ben individuati da parte dell’amministratore; è al contrario escluso che penda in capo all’attore l’onere di dimostrare che tali atti abbiano comportato l’assunzione di nuovo rischio d’impresa, essendo al contrario onere dell’amministratore dimostrare che tali atti fossero giustificati da finalità liquidatoria o si rendessero necessari per evitare l’aggravarsi dell’esposizione dell’ente.

4.

Quantificazione del danno

Per ciò che attiene alla quantificazione del danno la Corte di Cassazione smentisce che nella fattispecie in esame esso possa essere automaticamente individuato nella perdita subita dalla società per effetto della prosecuzione dell’attività. Ciò in quanto non tutto il decremento del valore patrimoniale della società sarà causato dalla prosecuzione dell’attività potendo queste anche verificarsi per effetto stesso delle perdite generate dalla cessazione dell’attività d’impresa nonché da quei costi che la stessa comunque deve fronteggiare anche in fase di liquidazione. Si prenda ad esempio il caso dei tributi, i quali saranno dovuti dalla società a prescindere dalla condotta concretamente adottata dall’organo gestorio.
Come è stato efficacemente stabilito dalla giurisprudenza di merito il danno derivante «dalla prosecuzione della attività con finalità non meramente conservativa in costanza di una causa di scioglimento, non è dato dall’incremento dei debiti, ma dall’eventuale incremento di perdita del patrimonio che costituisce la garanzia ex art 2740 c.c. per il pagamento dei creditori sociali» (Trib. Milano, sent. n. 4238 del 19 maggio 2021).
Peraltro, nelle ipotesi, non infrequenti nella prassi, in cui le scritture contabili della società siano tenute in maniera irregolare o risultino del tutto mancanti, l’onere probatorio in commento si declina nel dovere di allegare le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti dannosi riconducibili alla condotta dell’amministratore, circostanza che giustifica il ricorso alla domanda di liquidazione equitativa del danno ex art. 1226 c.c.. In tali casi (e solo in tali casi, come ha specificato Cass. S.U. 9100/2015 escludendo che quanto segue possa trovare applicazione al di fuori della fattispecie in cui gli amministratori siano venuti meno a specifici obblighi di legge in tema di tenuta delle scritture contabili obbligatorie) il criterio che consente una liquidazione equitativa del danno è oggi principalmente quello della differenza fra i netti patrimoniali. In passato si è fatto ricorso al criterio della differenza fra attivo e passivo fallimentare, il quale individuava il danno risarcibile nella differenza fra l’attivo e il passivo accertati dal liquidatore o dal curatore fallimentare. Oggi si ricorre, invece, prevalentemente al criterio della differenza dei netti patrimoniali, soprattutto dopo l’avallo delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza 9100/2015 sopra richiamata, che individua il danno risarcibile nella differenza fra il patrimonio netto della società al momento in cui si era verificata la causa di scioglimento e il patrimonio netto della società al momento della messa in liquidazione o al momento dell’apertura dell’eventuale procedura concorsuale.

5.

Conclusioni

In conclusione, l’ordinanza in commento conferma che al verificarsi della causa di scioglimento di cui all’art. 2484, comma 1, n. 4) è fatto divieto agli amministratori di compiere qualsivoglia operazione che non rappresenti adempimento di obblighi pregressi, integrando violazione dell’obbligo di conservazione di cui all’art. 2486 l’assunzione di qualsivoglia nuovo rischio commerciale. In caso di azione di responsabilità promossa contro di essi per la violazione di detti obblighi, l’onere di dimostrare che tali atti, benché effettuati successivamente allo scioglimento rientrassero in una logica liquidatoria grava in capo agli amministratori stessi.

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